Qohelet e la XXXII Giornata del Dialogo Ebraico-Cristiano

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di David Fiorentini 

 

Una serata all’insegna del dialogo e della comprensione, tra i rappresentanti della Comunità Ebraica di Firenze, la Sezione di Siena, e le Diocesi di Pescia e Firenze, quella avvenuta il 21 gennaio, in occasione della XXXII Giornata del Dialogo Ebraico-Cristiano. Il tema dell’incontro è stato l’affascinante libro del Qohelet o Ecclesiaste. Scritto intorno al III secolo a.e.v., è uno degli ultimi testi del Tanakh.

“Il libro dell’Ecclesiaste cerca di avvisare l’essere umano a non lasciarsi andare all’inerzia e alla vanità delle cose,” ha spiegato Rav Gadi Piperno, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Firenze. “Le parole dei saggi sono come stimoli e i detti dei sapienti sono come chiodi ben piantati”. I primi rappresentano le norme della Torah, che danno un indirizzo generale alla vita umana, mentre i secondi possono prendere anche posizioni diverse, spesso anche opposte. Ciò che unisce questo percorso è la concezione che “tutto è stato dato dall’unico Pastore”.

“Un testo che sembra echeggiare le domande di questi mesi di pandemia, del senso diffuso di incertezza e l’esperienza del tragico e della morte”, continua il Mons. Roberto Filippini, Vescovo della Diocesi di Pescia, “un ridimensionamento delle pretese onnipotentistiche della scienza, della tecnologia e dell’essere umano”. Temi, secondo il Monsignore, molto adatti al dialogo fraterno, il quale deve partire dal desiderio di cercare non da soli, ma insieme: “meglio due di uno solo”.

Dopo i saluti e l’introduzione del moderatore Dott. Erica Romano, la discussione è entrata nel vivo con gli interventi di Rav Crescenzo Piattelli, rabbino della Comunità Ebraica di Siena, e Don Luca Mazzinghi della Diocesi di Firenze.

“Il Qohelet potrebbe sintetizzare anche il pensiero biblico per il nostro tempo, perché offre un modo di vivere nel mondo caotico e selvaggio che stiamo sperimentando ogni giorno,” esordisce Rav Piattelli. Seguendo il ragionamento dell’Ecclesiaste, il saggio avrà sempre un senso di irrequietezza per la brevità della vita. Allora viene da chiedersi: a cosa serve la saggezza, se questa non procura la calma dello spirito, ma anzi convince ancor di più dell’incapacità dell’uomo di raggiungere la tranquillità e di risolvere i problemi del Mondo?

Il Qohelet aveva cercato qualcosa di duraturo e di stabile che potesse dare significato alla propria esistenza. Pensava che il sapiente avesse un vantaggio sullo stolto, ma è soltanto un’illusione, perché sia il saggio che l’ingenuo, sia il buono che il cattivo, finiranno allo stesso modo nell’oblio e nel nulla. Quindi a cosa sono servite tutte le fatiche sopportate, la conquista della ricchezza e la ricerca della sapienza? A niente, perché “tutto è vanità”, tutto è Havel, illusione. Le esperienze terrene non sono altro che vuoto, sembrano avere un significato, ma alla fine portano sempre al nulla.

Nel testo torna spesso l’espressione Havel Havalim, vuoto dei vuoti, un messaggio angosciante che fa da contraltare al Shir Hashirim, Cantico dei Cantici, che invece trasuda gioia e felicità. Cosa resta allora per l’uomo; solo un cupo nichilismo? Secondo il testo biblico, c’è solo una via per condurre nel modo migliore la propria vita: temere D-o. Nella vita umana non si possono scorgere i disegni divini; i piaceri e le tristezze possono improvvisamente mutare, i successi dipendono dal metafisico e non dalle virtù umane. Pertanto, non rimane che adempiere ai precetti della Torah, affidandosi alla misericordia divina.


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