Presente, passato e futuro dei vaccini

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Era il lontano 1795, un’epidemia di vaiolo martoriava la popolazione inglese. Sarah Nelmes, una giovane mungitrice, bussò alla porta del dottor Jenner; aveva febbre e lesioni tipiche del vaiolo. Jenner in quei giorni pensava e ripensava al motivo per il quale chi avesse contratto e superato quella malattia sembrasse non potersi infettare di nuovo, quasi come fosse “immune”.

Il dottore non si fece scappare l’opportunità di testare una delle sue teorie: quando Sarah Nelmes bussò alla sua porta lui l’accolse a braccia aperte, prese del pus dalle sue ferite da vaiolo e lo inoculò a James Phipps, il figlio di soli 8 anni del suo giardiniere. Dopo qualche giorno di leggera febbre, il piccolo James stava bene, e dopo due mesi Jenner decise di ripetere l’esperimento, questa volta inoculando il materiale infetto da vaiolo in entrambe le braccia. Il bambino non ebbe nessuna reazione, era immune al vaiolo.
Dopo questo piccolo passo, Jenner porto avanti numerose ricerche, producendo il primo vero vaccino moderno mai creato, ed entrò nella storia come il “padre dei vaccini”.

La biologia dietro al meccanismo di un vaccino fu studiata (e lo è ancora) a lungo, aprendo il vasto e complicato mondo dell’immunologia, di cui ancora sappiamo ben poco. Dopo quasi 160 anni di ricerche e scarse vaccinazioni, l’OMS decise di iniziare una campagna di vaccinazione mondiale contro il vaiolo, che terminò nel 1977 (Per maggiori info sull’OMS vedi https://www.ugei.it/whos-who).

Questa malattia divenne così la prima ad essere sradicata da strumenti artificiali.
Nel 1955 Jonas Salk terminava lo sviluppo del vaccino contro la Poliomielite; quando gli fu proposto di brevettarlo rispose “Non c’è nessun brevetto. Potreste forse brevettare il sole?”.

Nello stesso periodo, Albert Sabin sviluppò un vaccino orale, leggermente diverso rispetto a quello sviluppato dal collega Salk.
Entrambi questi vaccini furono protagonisti nella campagna massiva dell’OMS, che ridusse drasticamente i casi di poliomielite.
E adesso arriviamo al presente, dopo anni in cui  i vaccini erano basati su varianti virali innocue o su virus “uccisi”, proprio come quelli di Jenner, Sabin e Salk,  i vaccini a mRNA hanno fatto la loro entrata trionfale nel bel mezzo della pandemia di Coronavirus. Una tecnologia innovativa, in sviluppo da decenni, che ha ottenuto ottimi risultati, e che ha mostrato al mondo intero il potenziale della ricerca scientifica. (Per maggiori info sui vaccini a mRNA vedi articolo https://www.ugei.it/pfizer-e-moderna-tutto-cio-che-dovete-sapere-sui-vaccini-che-ci-salveranno-dal-covid).

La domanda è un’altra: in che direzione si stanno muovendo le ricerche sui vaccini?
Il tema ormai è immenso: si potrebbe parlare per ore riguardo alle emozionanti scoperte recenti nei  campi dell’immunologia, ciò nonostante la pena riportare solo un’ idea che è ritenuta rivoluzionaria, concepita dal virologo Leor Weinberger:

I virus mutano e si trasmettono di persona in persona. Hanno una natura dinamica che causa grandi problemi in caso di pandemia.

La nostra arma più forte durante un anno di epidemia è stata la quarantena/lockdown, effettivo, ma incredibilmente distruttivo. Da qualche mese la nostra arma più forte sono i vaccini, ma anche questi hanno le loro limitazioni.

Mentre il coronavirus si muta e si trasmette, i nostri vaccini non fanno nessuna delle due cose e nella maggior parte dei casi, funzionano in maniera molto simile ai vaccini di Jenner, Salk e Sabin. Queste armi lasciano in una guerra contro il tempo, sperando che i processi evolutivi darwiniani siano più lenti delle nostre possibilità di produrre e inoculare vaccini in tutto il mondo.

Il Dr. Weinberger si pose la domanda che in questo momento vi starete chiedendo anche voi: è possibile ottenere una cura dinamica, proprio come l’obiettivo che vuole distruggere? 20 anni fa questa idea incontrò molto scetticismo (come anche al giorno d’oggi), e durante anni di ricerca nessun risultato fu ottenuto, fino a quando dei promettenti esperimenti con infezioni di HIV diedero i loro frutti.

La terapia pensata dal virologo statunitense si chiama “terapia sabotatrice” (hijacker therapy), e consiste nell’usare un HIV mutato, o particelle d’interferenza terapeutica (TIP, in inglese), per ridurre i livelli di HIV “maligni” prodotti dalle cellule infette. Come? L’HIV usato in questa terapia contiene materiale genetico più corto, e senza abbastanza informazioni per generare una capsula virale; il materiale genetico entra nel nostro DNA e viene replicato (come nei casi di HIV normali), ma non è in grado di uscire dalla cellula.

Se la cellula colpita dal HIV “benigno” è anche infetta da quello “maligno”, le capsule prodotte dal DNA maligno potrebbero essere riempite dal DNA benigno, moltiplicando le particelle terapeutiche invece di quelle virali normali.

Tutto ciò potrebbe potenzialmente ridurre la carica virale di un malato di HIV, potrebbe permettere alla cura di trasmettersi da persona a persona e permettergli di mutare come la malattia stessa.

Questa terapia deve ancora essere approvata per iniziare la fase I di sperimentazione sugli umani, ed i risultati più recenti sono in fase di analisi di pre pubblicazione, ciò nonostante, se si ottenessero buoni risultati nelle sperimentazioni umane, questa idea potrebbe quasi cancellare l’HIV, un virus che nel 2019 ha infettato 1.7 milioni di persone, e che martoria l’Africa, dove le cure occidentali arrivano con parsimonia.

Non è la prima volta che un vaccino è in grado di trasmettersi: il vaccino orale di Sabin contro la Polio è stato scelto per le vaccinazioni di massa dell’OMS proprio perché era in grado di trasmettersi, e fu scelto nonostante i suoi non pochi effetti collaterali.

Questo “vaccino” potrebbe essere il primo a combattere allo stesso livello della malattia e ,se superasse tutte le lunghe fasi di sperimentazione, darebbe inizio ad una nuova era nella produzione di cure antivirali.


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