Israele: l’alternativa alla propaganda è la complessità

no propaganda

di Giorgio Berruto 

 

Forse un giorno ci renderemo conto che l’alternativa alla diffusa propaganda antisraeliana, che molto spesso è anche antisemita, non è una propaganda di segno opposto ma di fatto del tutto simile che punta “senza se e senza ma” a difendere Israele, ma la complessità.

Certo, è più facile rifugiarsi all’interno del vecchio schema noi/loro. È anche una reazione comprensibile. Sempre una reazione però, una azione cioè vincolata a qualcosa d’altro che si vorrebbe svalutare e invece paradossalmente si conferma, mantenendone la centralità.

Provo a spiegarmi con alcuni esempi. Affermare che il popolo arabo palestinese non esiste è oggi altrettanto falso che negare, come fa chi vorrebbe dimostrare l’estraneità di Israele in seno al Medio Oriente, che ci sia un legame tra la storia moderna degli ebrei e quella terra. In entrambi i casi si tratta di un pensiero che apre al genocidio filosofico dell’altro perché dell’altro nega l’alterità, cioè il fatto stesso che l’altro è altro, la sua possibilità, la sua esistenza. Quello che qui conta non è il riferimento a fatti storici più o meno lontani (è certamente vero che la maggioranza degli arabi palestinesi non ha antenati originari della Palestina geografica, e lo stesso può dirsi tranquillamente per gli ebrei israeliani), quello che importa è il racconto di alcuni fatti storici che si trasforma in memoria collettiva. È questa memoria collettiva il combustibile che accende il fuoco delle diverse e spesso contrapposte identità.

Altro esempio. Negare la violenza di gruppi armati ebraici, come Irgun e Lehi, durante il conflitto civile del 1947-1948 e la successiva guerra portata dagli stati arabi contro Israele è una scimmiottatura ridicola dei tentativi opposti ma identici per intensità di chi demonizza Israele e passa sotto silenzio le sue numerose ragioni. È evidente che violenze da parte ebraica in quel contesto di guerra ci sono state (si pensi al massacro di Deir Yassin), così come è evidente che la propaganda di entrambe le parti ha fatto il possibile per terrorizzare i civili arabi in modo da farli allontanare dalle zone dei combattimenti. Va da sé, almeno per chi scrive, che la responsabilità più grande va attribuita a chi si è opposto a ogni piano di divisione in due stati della terra e ha risposto con una guerra di aggressione all’indipendenza israeliana. È anche ovvio che, come è interessante ricostruire le vicende del passato, non lo è meno studiare come e perché una o più storie (e quella di Deir Yassin è ancora una volta emblematica) sono state assorbite e modificate nella memoria, trasformate in simboli, meditate, rovesciate, strumentalizzate (ecco qui la vulgata che, partendo da un piccolo frammento del quadro, giunge ad accusare Israele di pulizia etnica).

Ma non è questo il punto, qui. La questione è che riscrivere la storia di Deir Yassin, tanto per citare un caso tra tutti, come se si fosse trattato (solo) di una battaglia e non (anche) di un massacro significa non accettare l’imperfezione a tutto vantaggio di una presunta, impossibile perfezione. Quale perfezione? Evidentemente di sé, delle proprie idee, in questo caso di Israele (ma sarebbe più corretto dire del nazionalismo di destra israeliano). Si potrebbero cambiare gli ingredienti, il risultato sarebbe ugualmente indigeribile. E il risultato è il culto di sé, cioè del più diffuso degli idoli. Anche Israele, per non pochi tra i suoi amici, diventa un idolo quando viene dipinto come un luogo dove si sommano tutte le perfezioni (il cibo più buono, la tecnologia più avanzata, l’esercito più etico eccetera). Eppure la Torà mostra in modo molto efficace come unico luogo di perfezione non sia l’uomo e meno ancora uno stato, bensì Dio, cioè quello che è radicalmente Altro. Tutte le creazioni umane, e lo stato di Israele non fa eccezione, sono per essenza imperfette. Non le rende migliori dipingerle come esempi di perfezione in terra o cercare di cancellare le nefandezze compiute da alcuni o molti dei suoi abitanti. Per contrastare la propaganda non serve più propaganda, ma accettare l’imperfezione. In una parola, complessità.

 


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