Israele e il virus: una guerra invisibile

CORONAVIRUS

di Gavriel Hannuna

 

Sono più di 190.000 le persone che sono state infettate nel corso dell’epidemia di Covid in Israele. La situazione è cambiata radicalmente, tanto che se prima lo Stato Ebraico veniva visto come un esempio da seguire, adesso mostra statistiche degne di alcune delle peggiori gestioni della crisi tra i paesi del primo mondo.

La prima ondata

Ultimi giorni di febbraio: l’Italia iniziava a rendersi conto della gravità della situazione nei propri confini; Wuhan ancora si trovava in totale quarantena; pochi paesi nel mondo sembravano curarsi dell’esistenza di questo virus, con pochi test e poco spazio mediatico. Intanto Israele reagiva, chiudendo tratte aeree con Italia, Cina, Thailandia e altri paesi asiatici. A marzo inoltrato, Netanyahu decise di entrare in un lockdown non troppo severo, con norme più rigide solo durante le festività. Israele raggiunse il picco della prima ondata il 2 di aprile, con 765 infetti in un giorno, e fu uno dei paesi con il maggior numero di test pro capite.

Durante i mesi della prima ondata, lo Stato Ebraico era su tutti i giornali: notizie di sperimentazioni sui vaccini già iniziate, start-up nascenti per trovare soluzioni innovative al problema dei test rapidi e mascherine funzionanti, Netanyahu che usava l’intelligence per “combattere la guerra contro il coronavirus” e far sì che il Ministero della Sanità potesse fornire una mappa con informazioni dettagliate su dove fossero stati gli infetti. Non c’è da stupirsi se tra i “green countries”, paesi che avevano deciso di iniziare delle trattative per ricominciare i commerci internazionali, c’era anche Israele.

Naturalmente gli effetti del lockdown si fecero sentire lo stesso: la disoccupazione passò dal 3,4% al 21% nel giro di qualche mese, con un Pil in discesa del 6-7% (secondo le stime OCSE); l’economia israeliana fu colpita duramente, ma il governo sembrava già pronto per ripartire, iniziando con un vasto programma di aiuti finanziari.

La seconda ondata

Il secondo film di una serie è spesso deludente, e le aspettative non vengono quasi mai soddisfatte; così è stato anche per la seconda ondata. Fratture che si erano formate nella società Israeliana all’inizio della crisi sono diventate voragini, contribuendo alla trasformazione di Israele da modello positivo a negativo. “Guardateli, questo è l’esempio che NON dobbiamo seguire”: una frase che ha colpito anche l’Italia, quando veniva vista come l’appestata d’Europa, adesso colpisce anche la Terra Santa.

Il primo ingrediente

Prima di entrare nei particolari della seconda ondata, bisogna ricordare una cosa: il governo israeliano è lento. Uno dei lati negativi di qualunque governo democratico è proprio la lentezza, dovuto al semplice fatto che le decisioni vanno prese tramite compromessi. Ma l’attuale governo israeliano è particolarmente diviso ed instabile, tant’è che Rivlin ha preferito ribadire più volte che “tornare alle urne non è una possibilità”, e ha spesso mediato tra Netanyahu e Gantz per evitare un’ennesima crisi di governo nel bel mezzo della pandemia. L’unità del governo durante la prima ondata, mossa da una paura genuina per il virus, è andata scemando, facendo riaffiorare le solite discussioni politiche.

Non si può analizzare la seconda ondata senza notare la lentezza con la quale l’esecutivo ha risposto. Detto questo, possiamo leggere sulla nostra lista il secondo ingrediente per il fallimento: la questione laico-ortodossa.

Il secondo ingrediente

Per questione laico-ortodossa si intende il forte disaccordo, vecchio quanto lo stato, che c’è tra i due gruppi. Israele dovrebbe essere laica o ortodossa? Gli autobus possono girare di shabbat? E le macchine? Perché chi studia in yeshiva può non fare il militare? Perché si spendono così tanti soldi per il sostentamento delle comunità ultrareligiose? Queste questioni si trovano nel dibattito politico dal lontano ‘48, e durante la pandemia si è parlato di un altro comportamento che molti cittadini israeliani trovano irritante: la completa disconnessione dal mondo di alcune comunità ultraortodosse, e la loro caparbietà verso le autorità ufficiali.

Molto focolai di coronavirus sono stati registrati in zone notoriamente religiose, come anche nella giovane e laica Tel Aviv. I ministri e i deputati dei partiti religiosi si sono detti turbati per le restrizioni verso le comunità religiose e verso il culto in generale, quali ad esempio per le limitazioni verso le preghiere, ed i lockdown irrigiditi durante le festività ebraiche. Molti cittadini accusano gli ortodossi di esseri i principali untori, poiché spesso e volentieri non hanno rispettato le restrizioni sull’assembramento e riguardanti l’uso di mascherine in luoghi pubblici. Fa riflettere – e forse anche un po’ ridere – che perfino in Israele gli ebrei vengano accusati di esseri gli untori di un’epidemia.

Last, but not least

Per la prima volta nella storia dell’uomo, le informazioni su una pandemia sono state disponibili a portata di click. Ma ciò nonostante gli stati, ed i loro cittadini, hanno spesso agito in maniera controproducente. I cittadini israeliani hanno forzato il governo a riaprire tutto dopo la prima ondata: discoteche, pub, ristoranti, centri commerciali. Inizialmente riluttante, l’esecutivo dovette permettere la riapertura, e a maggio tutto sembrava tornare alla normalità.

Naturalmente era solo un miraggio; i casi iniziarono presto ad aumentare, Netanyahu si rese conto che nessuno ormai stava rispettando le semplici regole di distanziamento sociale e intervenne in TV minacciando una seconda quarantena. Nel corso dell’estate si cercò di permettere una “convivenza” con il virus, aumentando le regolazioni sanitarie a tutti commerci, e rendendo obbligatoria la mascherina in luoghi pubblici. Eppure, ciò non bastò: le statistiche lo mostrarono, ma il governo rimase immobile per mesi, ammirando la curva degli infetti raggiungere valori esorbitanti. Intanto migliaia di persone si riuniscono da più di un mese davanti all’abitazione di Netanyahu per protestare. Questi cittadini Protestano principalmente per la mala gestione della seconda ondata, e si ritrovano in piazza senza rispettare le norme di distanziamento sociale, rigurgitando sul premier tutto ciò che li ha irritati negli ultimi anni: i vari processi mai terminati, l’annuncio dell’annessione, e perfino il trattato di pace con gli Emirati.

La tempesta perfetta ha colpito Israele, che ha (finalmente) annunciato un nuovo lockdown a partire dal 18 settembre. È il primo paese al mondo a chiudere tutto. Altre perdite nel Pil e una crescente disoccupazione sono all’orizzonte. Per lo Stato ebraico sarà difficile rialzarsi da questa fossa; si può solo sperare che, con la fine dell’epidemia, il nostro stato rinasca dalle sue ceneri, più forte di prima.


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