In linea con noi stessi: Kippur, il giorno dopo

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di David Zebuloni 

 

Cari lettori, vorrei condividere con voi un pensiero.

Un pensiero, probabilmente, meno impellente ed illuminante di quanto mi risulti in questo momento di scompiglio, ancora stordito dal digiuno e dal suono dello Shofar, ma abbastanza significativo da meritare uno spazio nel web e nei vostri cuori, prima che finisca nell’oblio.

Un altro Kippur si è concluso. Il giorno più sacro dell’anno, secondo la tradizione ebraica, è giunto al suo termine. Poco di ciò che mi è accaduto nelle ultime 26 ore vi interesserà, se non un particolare momento, a tratti semplicissimo, vissuto in privato, al tempio, nascosto sotto uno strato bianco-azzurro del mio Tallit. Dopo la preghiera di Minchà, un attimo prima della Neillà, infatti, un signore a me sconosciuto si è alzato, si è schiarito la gola, ha preso un grosso respiro e ha annunciato: “Stiamo per recitare la preghiera più importante dell’anno e vorrei chiedervi di rivolgere un pensiero anche a quelle persone che non sono riuscite ad arrivare oggi al tempio, di pregare anche per loro”.

Prima ancora che riuscisse a terminare la frase, il signore a me sconosciuto è scoppiato in lacrime e si è riseduto al suo posto. Ora, vi mentirei se vi dicessi che si trattava di uno Schwarzenegger. Proprio no, nemmeno lontanamente, ma diciamo che non mi è parso neppure un tipo docile, di quelli che si mettono a piangere alla fine di Titanic. Il signore in questione aveva l’aspetto ruvido e sufficientemente robusto: un israeliano, nel senso più risoluto del termine. Non conosco il suo passato, tantomeno il suo presente, e non so il motivo della sua voce spezzata, delle sue lacrime soffocate. Non so nemmeno a chi si riferisse quando ha chiesto di pregare per gli assenti alla funzione. Una cosa sola è certa: la sua vulnerabilità mi ha toccato profondamente, tanto da regalarmi una nuova consapevolezza. Di quelle che ti colpiscono all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Prima però, facciamo un passo indietro.

Qualche anno fa sentii una bellissima spiegazione sul motivo per il quale il popolo ebraico rispetta lo Shabbat, nonché il settimo giorno della settimana, detto anche il giorno del riposo. Non ricordo la fonte precisa, ma ricordo che quella spiegazione mi rimase più impressa di qualunque altra io abbia sentito prima e dopo di essa. Secondo questa singolare versione, lo Shabbat non è altro che quel momento raro in cui l’uomo si allinea con la natura. Ovvero, sei giorni alla settimana possiamo illuderci di fare e di disfare, di creare e di distruggere, persino di comandare e di governare, ma  al settimo giorno dobbiamo assolutamente rimetterci alla pari con ciò che ha generato il Signore prima ancora della creazione dell’uomo. Per questo motivo, nel giorno dello Shabbat, non utilizziamo il telefono e non viaggiamo in macchina, non accendiamo il forno e non spegniamo la luce prima di coricarci. Tutto ciò è volto a farci sentire parte della natura, in un modo quasi primordiale, privo di qualunque strumento che ci faccia sentire sovrannaturali. Ovvero, al di sopra della natura.

Ecco, un attimo prima della Neillà, grazie alla voce rotta dell’uomo dal volto segnato, ho realizzato che il Kippur non è altro che il giorno in cui l’uomo si allinea con se stesso. Come lo Shabbat viene a ricordarci che l’uomo è parte della natura e non al di sopra di essa, Kippur viene a ricordarci che l’uomo è parte dell’umanità e, certamente, non al di sopra di essa. Per 364 giorni l’anno, infatti, ci illudiamo di essere cinici, forti e invulnerabili. Poi arriva Kippur, il giorno del giudizio, del perdono, e svela la parte più autentica e profonda del nostro essere. Questi, d’altronde, siamo noi. Non necessariamente avvolti nel Tallit, seduti al tempio e storditi dal digiuno, ma sicuramente sensibili, vulnerabili e fragili. Noi, capaci di perdonare e di chiedere perdono, di pentirci dei nostri errori e di riprometterci (talvolta vanamente, ma a chi importa) di diventare persone migliori. Abituati a scaricare le colpe sugli altri, a Kippur d’un tratto riusciamo ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di ammettere persino di aver sbagliato.

Forse, come lo Shabbat ci chiede di ripristinare il mondo al momento della sua creazione, così lo Yom Kippur ci invita a ripristinare l’uomo al momento della sua prima apparizione. Un uomo più empatico e meno vizioso di quello che conosciamo oggi, più bendisposto e meno astioso. Forse, a Kippur, proprio nel giorno dell’espiazione, non ci viene chiesto di essere diversi, di essere persone migliori, più buone, più elevate, più pure, più innocenti. No, forse a Kippur ci viene chiesto solamente di essere noi stessi. Noi, con tutti i nostri difetti e tutti i nostri pregi, tutte le nostre forze e tutte le nostre debolezze, tutte le nostre convinzioni e tutte le nostre contraddizioni. Forse, quasi paradossalmente, Kippur è l’unico giorno all’anno in cui abbassiamo le maschere e ci mettiamo a nudo, in cui ci concediamo il raro privilegio di essere ciò che siamo realmente: degli esseri umani. Carne ed ossa, polvere della terra. Nulla di più.

Forse, o forse no. Nel dubbio, però, mi piace credere che sia così.


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